Oggi, come accade di norma una volta a settimana, ogni settimana da quasi 15 anni, la nonna ha cucinato pasta e fagioli. Ora, io non so in che rapporti siate voi con la pasta e fagioli, ma il mio è piuttosto conflittuale. Un conflitto cruento che ha alternato, nella sua evoluzione, periodi di relativa calma a picchi di criticità inquietanti.
Non ho nulla da ridire su mia nonna. È una brava donna e una buona cuoca. I problemi per la verità erano cominciati già con mia mamma. Quand’ero piccolo non ammettevo discussioni: pasta e fagioli non la volevo. Inutili tutte le manfrine che mi rifilavano per convincermi della sua supposta capacità di farmi crescere i muscoli. Sapevo benissimo che quelli che facevano crescere i muscoli erano gli spinaci, chi volevano fregare.
Una volta, non so se per variare o per infierire, vollero farmi assaggiare la zuppa di fagioli. Non ricordo quale subdolo mezzo dovettero usare per convincermi a dare almeno qualche boccone. Ancora oggi non escludo nulla, dalla violenza alla meschina promessa della “bella cosa”, fino all’ipnosi. Ma non mi capacito di come abbia potuto avere il coraggio anche solo di mettere il naso sotto quella brodaglia arancione in cui affogavano, poverine, tre o quattro fette di pane circondate da mollicci fagioli.
Incuranti delle mie manifeste difficoltà, la pasta e fagioli non è mai mancata dalla dieta settimanale di casa mia. Spesso, chiedevo che mi venisse concessa un’alternativa; e non di rado, questo devo riconoscerlo, mi veniva accordata. Ma non meno di rado capitava che, stoicamente, mi decidevo a mangiarla la pasta e fagioli. Non era un accesso di conversione. Si trattava piuttosto del desiderio di non essere un impaccio alla già complicata vita da cuoca di chi mi cucinava.
Nel corso del tempo, la cosa cominciò ad avere ripercussioni culturali. Con malcelata vergogna, attraverso riflessioni mirate, fui costretto a rendermi conto che era una combinazione micidiale a risultarmi insopportabile: i fagioli, assieme alla pasta mista. O per dir meglio: ‘e fasule ca pasta ammiscat. Insomma, uno dei pilastri della tradizione culinaria napoletana. Un’onta terrificante per la mia anima orgogliosa di giovane partenopeo.
Non so se subconsciamente possa aver influito questo, ma crescendo ho iniziato ad avere un approccio un po’ più maturo. Già allora, ogni tanto mi coglievano queste fisse salutiste. Mangiare sano. Figurarsi. Con tutte le merendine, e le patatine, e i kebab, e le pizze pittoresche. Ma a maggior ragione, quindi, i legumi ci vogliono. Fanno bene. Ecco, credo sia su questo “fanno bene” che gran parte di noi bambini occidentali ci ritroviamo per la prima volta a filosofeggiare, constatando che tutte le cose di cattivo sapore, chissà perché, ci fanno bene; e per contro, quelle che mangeremmo dalla mattina alla sera, quasi sempre, fanno male. (Il secondo momento filosofico invece, di norma si ha a scuola, analizzando dottamente col compagno di banco come il tempo sembri non voler passare mai se stai facendo qualcosa di noioso, come assistere a una spiegazione del professore, e viceversa.)
Ad ogni modo, questo “fanno bene” è stato tutto ciò che mi ha spinto ad accettare di mangiarli. Senza che mi si chiedesse, al mattino, se per caso quel giorno me la sentivo di affrontare. Senza che la cosa mi rovinasse la giornata. Senza turarmi il naso ad ogni boccone. Senza aiutare la deglutizione di ogni singolo bolo con un sorso d’acqua. Senza sentirmi un eroe, alla fine. Senza lasciare intere cucchiaiate nel piatto, “che i bambini in Africa, se avessero a disposizione quel ben di Dio, ci si butterebbero dentro a capofitto” (e il conseguente senso di colpa, e profondo desiderio di saltare il pasto, una volta a settimana, il giorno dei fagioli, e lasciarlo a qualche bambino africano).
Ed ora eccola lì, sul tavolo, la mia pasta e fagioli. Per la verità, continua a farmi un po’ schifo. Per poterla mangiare, nel tempo sono ricorso a vari escamotage. L’ultimo, in senso cronologico, è stato il peperoncino. Prendo un pezzo intero di peperoncino, lo apro, spargo i semi nella pasta, ci ficco dentro i pezzi divisi, e rimescolo. Un bicchiere sempre pieno d’acqua, per motivi di sicurezza. Il peperoncino è terribile. La settimana scorsa, mi è capitato di stropicciarmi gli occhi, istintivamente, senza lavare le mani. Avete presente quando le mamme dicevano che se avessimo continuato a fare i monelli ci avrebbero messo il peperoncino sulla lingua. Per quanto mi abbia lasciato vivere con questo terrore per tutta l’infanzia, la mia non l’ha mai realmente fatto. E menomale. Penso che una buona dose di peperoncino sulla lingua possa essere classificato tra i metodi di tortura più brutali, in assoluto. Il peperoncino ha preso a bruciarmi l’occhio sinistro, come mai nessuno shampoo aveva saputo fare nell’ultimo ventennio. Allucinante.
Per questa esperienza piccante, me la sono preso con loro, i fagioli, ovviamente. Non fosse stato per il loro gusto avvilente le mie papille gustative, non sarei stato costretto a maneggiare quel pezzetto curt e mal ncavat di peperoncino; che, a proposito, dicono faccia molto bene.
Ma ora sono cresciuto. Io e i fagioli stiamo riuscendo a convivere. E in fondo, a quei maledetti, ho imparato a voler bene. Non li rigetto. Non chiedo più la via di fuga. E se anche mi viene offerta – per pietà o che so io - rifiuto, fieramente. Speranzoso, magari, che i fagioli possano redimermi da tutti i miei peccati alimentari. E, pensando ai bambini in Africa, non solo da quelli.