martedì 18 dicembre 2012

"Ma 9x9... farà 81?"


C’è una scena in “Non ci resta che piangere” in cui Benigni e Troisi, nel loro peregrinare attraverso il Medioevo, si trovano di fronte Leonardo da Vinci. Per entrare in contatto con un personaggio di questo spessore, i due stabiliscono che non c’è altro modo: bisogno incuriosirlo, con un “ragionare di scienza”.
Così si mettono a simulare una conversazione peripatetica e giunti nel raggio uditivo di Leonardo, Troisi ritiene di aver individuato il tasto giusto da toccare: matematica. “Ma 9x9… farà 81?”. Eh già, come se fosse stato possibile spacciarsi per luminari scientifici dinanzi al Genio rinascimentale facendo sfoggio della conoscenza delle tabelline.
Ma la carica comica di questa battuta sta proprio nella pretesa di poter trasformare un elemento oggettivo quale è una moltiplicazione, in un oggetto di dibattito. Sulla matematica c’è poco da obiettare. La matematica, ci hanno insegnato, non è un’opinione.
Ma quanto non era altro che una semplice e riuscita trovata umoristica persino nella Frittole del 1400 (seppur “quasi mille e cinque”) diventa una cosa serissima nella Napoli del terzo millennio. Alla Federico II sono infatti riusciti a capovolgere il più abusato dei luoghi comuni sulla matematica. Per la segreteria della Facoltà di Lettere e Filosofia essa è eccome, un’opinione; al punto da rendere una semplice operazione matematica, oggetto di discussione di un consiglio di corso di laurea.



Esperienza personale. I fatti sono questi.
All’inizio di quest’anno accademico ho deciso di riprendere gli studi, dopo un’interruzione di alcuni anni.
Iscrivendomi, ho effettuato il passaggio dal Nuovo Ordinamento (NO) al Nuovissimo Ordinamento (NNO) ed ho richiesto il riconoscimento degli esami sostenuti nella mia carriera pregressa. Nel farlo, ero consapevole delle inevitabili incongruenze che sarebbero nate nel trasferimento da un ordinamento all’altro. Esami che nel NO valevano 4 crediti, nel nuovo valgono 9, ad esempio; o magari due o più esami del nuovo, sono stati accorpati in un unico esame nel NNO. Di conseguenza bisogna fare delle integrazioni agli esami già sostenuti. I programmi dovrò concordarli col docente di ruolo del relativo insegnamento.

Tutto questo a me lo ha detto il cordiale impiegato della segreteria in via Giulio Cesare Cortese. Mi ci sono recato, dopo un mese dall’iscrizione, per prendere visione della delibera del CdL. È il consiglio che stabilisce e ufficializza quali esami riconoscere e con quali modalità.
L’impiegato ha continuato a darmi spiegazioni e a dirimere ogni mia perplessità per un altro paio di minuti.
Poi…
Quando stavo già per andare via, ho fatto una domanda; una di quelle che fai per eccesso di zelo, per pedanteria, per ansia. Come verrà calcolato il voto finale che comprenda la valutazione dell’esame più l’integrazione? Ovviamente, visto che il voto già acquisito l’ho preso su un programma di 8 crediti e l’integrazione vale 4 crediti, l’incidenza dei due voti è diversa. No?
L’impiegato mi ha freddato.
Mi ha spiegato che le cose non stanno esattamente così. In realtà loro non calcolano la media ponderata, bensì quella aritmetica, indipendentemente dal peso dell’integrazione. Per inciso, ha tenuto a precisare, anche se ci fosse da integrare un solo credito, zacchete, media aritmetica.
Per coloro ai quali quest’affermazione non fa gelare il sangue nelle vene, voglio raccontare questa storiella.

Quand’ero piccolo ho amato Andy Capp, il protagonista della serie di strisce a fumetti creato da Reginald Smythe (in Italia, forse, la striscia è più famosa come “Le avventure di Carlo e Alice”). In una pagina che mi ha fatto sorridere per anni, c’è Flo, la moglie grassoccia di Andy, che sale su una bilancia, e intima al marito, evidentemente più magro, di balzarci su anche lui.
La bilancia fa il suo lavoro e i due se ne vanno via, Flo visibilmente rinfrancata. “160 Kg, diviso due… fanno 80”. Andy la guarda perplesso e fa per obiettare: “Ma in questo modo…”.
“Non una parola” gli ringhia contro Flo.
Divertente. Quando una cosa del genere non accade nella realtà.
L’impiegato, che a questo punto ho cominciato a detestare visceralmente, mi ha confessato quanto sarebbe complicato per loro e per i sistemi informatici fare una media ponderata per ogni singola integrazione.

Ma voi non siete l’assemblea di condominio di un parco di periferia. Voi siete la segreteria della Federico I, perdiana, la più antica università pubblica del sistema solare. Più antica persino di Leonardo.

Il maledetto impiegato ha rincarato, invitandomi a tener conto che, be’ sì, anche per i professori non sarebbe stato semplice districarsi in una siffatta complicazione.
A me questo è parso un banale tentativo di ironizzare sullo stereotipo dell’uomo di lettere incapace di cavarsela anche coi numeri e le operazioni più elementari.
Poi talvolta accade che noi che ci troviamo nell’ambito delle materie umanistiche, inorridiamo, ci offendiamo e scandalizziamo perché ci viene rimproverata l’inutilità e l’insostenibilità economica, politica e sociale, del nostro ambito di studi. E hai voglia a cercare di ribellarci e rispondere a questo luogo comune e provare a mettere k.o. il nostro interlocutore con argute risposte aforistiche. Se le segreterie delle nostre facoltà non sono nemmeno in grado di fare un calcolo tanto banale, secondo me la questione è chiusa, senza possibilità di replica. Meritiamo di diventare oggetto delle barzellette degli studenti delle facoltà scientifiche, un po’ come i carabinieri.

L’impiegato continua a parlare ma ormai mi sono arreso. Spiegazzo la cartaccia della delibera e la infilo in cartella. Agonizzante, ma non ancora domo, protesto infantilmente ancora un po’: “Forse è perché ho fatto un istituto tecnico, ma le assicuro che non era così complicato calcolare il diverso peso dei due voti”.
Quasi avesse voluto darmi l’estrema prova dell’ottusità del sistema, l’impiegato mi ha inferto il colpo di grazia: “Guardi, lei in teoria ha ragione. Ma è il consiglio che decide su queste cose. E il consiglio ha stabilito che era più… ecco, diciamo che era più conveniente per noi, fare in questo modo”.
Che è un po’ come se io là dentro invece che per discutere dei crediti formativi, ci fossi andato per sapere a quanto ammontavano le tasse da pagare.
“Be’ guardi. Sono 100 € la tassa regionale, e 150 € il contributo all’università, per un totale di 350 €”.
“No mi scusi” avrei obiettato, “ma 100 e 150 fanno 250”.
“Sì, in teoria lei ha ragione, ma vede, il consiglio del corso di laurea si è riunito e ha stabilito che per noi è più conveniente che facciano 350”.

Io, è vero, ho fatto un istituto tecnico. Tuttavia non credo mi verrà mai assegnata la medaglia Fields solo per essere in grado di calcolare una media ponderata. Ma talvolta la matematica può trasformarsi in un’opinione. In un ragionare di scienza.
Forse Troisi ha sbagliato periodo storico in cui ambientare la sua battuta. Nel 1400 era troppo avanti coi tempi. Avrebbe dovuto farla nella Federico II del 2012. Ma 9x9 farà 81? Solo che in segreteria non ci avrebbero trovato nulla da ridere. E al massimo avrebbero posto la questione all’ordine del giorno nel prossimo consiglio di laurea.

giovedì 1 marzo 2012

Io e la pasta e fagioli


Oggi, come accade di norma una volta a settimana, ogni settimana da quasi 15 anni, la nonna ha cucinato pasta e fagioli. Ora, io non so in che rapporti siate voi con la pasta e fagioli, ma il mio è piuttosto conflittuale. Un conflitto cruento che ha alternato, nella sua evoluzione, periodi di relativa calma a picchi di criticità inquietanti.
Non ho nulla da ridire su mia nonna. È una brava donna e una buona cuoca. I problemi per la verità erano cominciati già con mia mamma. Quand’ero piccolo non ammettevo discussioni: pasta e fagioli non la volevo. Inutili tutte le manfrine che mi rifilavano per convincermi della sua supposta capacità di farmi crescere i muscoli. Sapevo benissimo che quelli che facevano crescere i muscoli erano gli spinaci, chi volevano fregare.
Una volta, non so se per variare o per infierire, vollero farmi assaggiare la zuppa di fagioli. Non ricordo quale subdolo mezzo dovettero usare per convincermi a dare almeno qualche boccone. Ancora oggi non escludo nulla, dalla violenza alla meschina promessa della “bella cosa”, fino all’ipnosi. Ma non mi capacito di come abbia potuto avere il coraggio anche solo di mettere il naso sotto quella brodaglia arancione in cui affogavano, poverine, tre o quattro fette di pane circondate da mollicci fagioli.
Incuranti delle mie manifeste difficoltà, la pasta e fagioli non è mai mancata dalla dieta settimanale di casa mia. Spesso, chiedevo che mi venisse concessa un’alternativa; e non di rado, questo devo riconoscerlo, mi veniva accordata. Ma non meno di rado capitava che, stoicamente, mi decidevo a mangiarla la pasta e fagioli. Non era un accesso di conversione. Si trattava piuttosto del desiderio di non essere un impaccio alla già complicata vita da cuoca di chi mi cucinava.
Nel corso del tempo, la cosa cominciò ad avere ripercussioni culturali. Con malcelata vergogna, attraverso riflessioni mirate, fui costretto a rendermi conto che era una combinazione micidiale a risultarmi insopportabile: i fagioli, assieme alla pasta mista. O per dir meglio: ‘e fasule ca pasta ammiscat. Insomma, uno dei pilastri della tradizione culinaria napoletana. Un’onta terrificante per la mia anima orgogliosa di giovane partenopeo.
Non so se subconsciamente possa aver influito questo, ma crescendo ho iniziato ad avere un approccio un po’ più maturo. Già allora, ogni tanto mi coglievano queste fisse salutiste. Mangiare sano. Figurarsi. Con tutte le merendine, e le patatine, e i kebab, e le pizze pittoresche. Ma a maggior ragione, quindi, i legumi ci vogliono. Fanno bene. Ecco, credo sia su questo “fanno bene” che gran parte di noi bambini occidentali ci ritroviamo per la prima volta a filosofeggiare, constatando che tutte le cose di cattivo sapore, chissà perché, ci fanno bene; e per contro, quelle che mangeremmo dalla mattina alla sera, quasi sempre, fanno male. (Il secondo momento filosofico invece, di norma si ha a scuola, analizzando dottamente col compagno di banco come il tempo sembri non voler passare mai se stai facendo qualcosa di noioso, come assistere a una spiegazione del professore, e viceversa.)
Ad ogni modo, questo “fanno bene” è stato tutto ciò che mi ha spinto ad accettare di mangiarli. Senza che mi si chiedesse, al mattino, se per caso quel giorno me la sentivo di affrontare. Senza che la cosa mi rovinasse la giornata. Senza turarmi il naso ad ogni boccone. Senza aiutare la deglutizione di ogni singolo bolo con un sorso d’acqua. Senza sentirmi un eroe, alla fine. Senza lasciare intere cucchiaiate nel piatto, “che i bambini in Africa, se avessero a disposizione quel ben di Dio, ci si butterebbero dentro a capofitto” (e il conseguente senso di colpa, e profondo desiderio di saltare il pasto, una volta a settimana, il giorno dei fagioli, e lasciarlo a qualche bambino africano).
Ed ora eccola lì, sul tavolo, la mia pasta e fagioli. Per la verità, continua a farmi un po’ schifo. Per poterla mangiare, nel tempo sono ricorso a vari escamotage. L’ultimo, in senso cronologico, è stato il peperoncino. Prendo un pezzo intero di peperoncino, lo apro, spargo i semi nella pasta, ci ficco dentro i pezzi divisi, e rimescolo. Un bicchiere sempre pieno d’acqua, per motivi di sicurezza. Il peperoncino è terribile. La settimana scorsa, mi è capitato di stropicciarmi gli occhi, istintivamente, senza lavare le mani. Avete presente quando le mamme dicevano che se avessimo continuato a fare i monelli ci avrebbero messo il peperoncino sulla lingua. Per quanto mi abbia lasciato vivere con questo terrore per tutta l’infanzia, la mia non l’ha mai realmente fatto. E menomale. Penso che una buona dose di peperoncino sulla lingua possa essere classificato tra i metodi di tortura più brutali, in assoluto. Il peperoncino ha preso a bruciarmi l’occhio sinistro, come mai nessuno shampoo aveva saputo fare nell’ultimo ventennio. Allucinante.
Per questa esperienza piccante, me la sono preso con loro, i fagioli, ovviamente. Non fosse stato per il loro gusto avvilente le mie papille gustative, non sarei stato costretto a maneggiare quel pezzetto curt e mal ncavat di peperoncino; che, a proposito, dicono faccia molto bene.
Ma ora sono cresciuto. Io e i fagioli stiamo riuscendo a convivere. E in fondo, a quei maledetti, ho imparato a voler bene. Non li rigetto. Non chiedo più la via di fuga. E se anche mi viene offerta – per pietà o che so io - rifiuto, fieramente. Speranzoso, magari, che i fagioli possano redimermi da tutti i miei peccati alimentari. E, pensando ai bambini in Africa, non solo da quelli.