giovedì 20 agosto 2015

Il dilemma della birra aperta

Preambolo

Immaginate: è lunedì sera. Non uno di quei tristi lunedì in cui i buoni propositi di iniziare la dieta hanno resistito fino al tramontar del sole. Piuttosto uno di quei piacevoli lunedì che, gastronomicamente parlando, risultano essere dei simpatici prolungamenti del week-end.
Il menù della serata prevede würstel e patatine. Pagnottelle per hot-dog, salsa rosa e coca-cola ghiacciata. In freezer il gelato ti attende impaziente.
Il livello di endorfine ha già raggiunto picchi degni di una puntata di Esplorando il corpo umano.
Così, travolto da un'euforia cieca, ti viene in mente di avere una birrona fredda che avevi cominciato a trangugiare nel pomeriggio. Gli impulsi del cervello hanno smesso già da tempo di essere filtrati dalla coscienza razionale. Così ti decidi a prelevarla dal frigo e a metterla in tavola. Il problema è che stasera a cena c'è anche tua cognata. Che, come messasi d'impegno a voler confermare una qualche Legge di Murphy, prima che il fondo della bottiglia tocchi il tavolo, ti fa: “Che bello, la birra! Ne voglio un po' anch'io”.
Svanisce l'incantesimo.
Non sei nell'Empireo, ma sul pianeta Terra, a casa tua, e tua cognata vuole la birra, l'unica presente in casa. Quella birra che quando nel pomeriggio hai preso a scolarti selvaggiamente dalla bottiglia, non ti è passato nemmeno per un istante di versare in un bicchiere. Panico!

PROBLEMA – parte 1

Un altro zotico come te.
Un primo livello di conflittualità: cosa fare quando le norme di educazione che ti richiedono di soddisfare ogni ragionevole desiderio di un ospite cozzano contro l'etichetta che impone di non servire ai tuoi ospiti alimenti o bevande che abbiano perduto la virginea sacralità del “giuro che quello che ti offro non è entrato in alcun modo in contatto con la cavità orale di un altro essere umano prima di te”, implicito in ogni offerta di cibo o bevanda? Dirlo o non dirlo che hai bevuto dalla bottiglia?


Too easy!

Se ci trovassimo al Campionato Mondiale di Pippe Mentali, comunque, questo qui non sarebbe che il livello per principianti.
Tra le due istanze esposte nel Problema, infatti, la seconda ha una priorità chiaramente più alta. Ovvero, se sei ospite a cena da qualcuno, chi se ne frega che un tuo desiderio non venga assecondato, se ciò significa evitare di bere birra in cui la probabilità che siano presenti residui salivari di qualcun altro è piuttosto elevata.

Annuncio di un “PROBLEMA – parte 2”

Devi dirglielo, quindi.
Ma preparati ad essere fiero di te: stai per qualificarti al Livello per Esperti del CMPM.
È adesso, infatti, che il cuore di tutta la faccenda comincia a pulsare in maniera vibrante.
Se una persona ti chiede di bere la birra che hai in mano, ammettere di aver bevuto dalla bottiglia non riesce, purtroppo, a chiudere la discussione senza possibilità e necessità di replica. Non come ci riuscirebbe, ad esempio: “Non è birra. È pipì”.

Riflessione preambolica riguardo i motivi per cui il PROBLEMA – parte 2 è ben più ostico del PROBLEMA – parte 1

La tua confessione avrà la tanto spiacevole quanto ineludibile conseguenza di obbligare il tuo ospite a prendere una decisione. Perché bere dallo stesso contenitore da cui ha bevuto un'altra persona, non è qualcosa di universalmente accettato come sconveniente o, che so, pericoloso. Non in tutti i casi, comunque. Nessuno di noi si sognerebbe di bere da una bottiglia trovata aperta in un parco. Mentre la quasi totalità delle persone berrebbero senza problemi dalla stessa bottiglietta da cui ha bevuto il/la fidanzato/a.
Ma tra questi due estremi – un perfetto sconosciuto e la persona con cui hai la massima intimità fisica – esistono tutta una serie di livelli intermedi. E a seconda del livello in cui il tuo ospite ti avrà relegato nella sua personale griglia, sarà o non sarà disposto a bere dalla tua stessa bottiglia.
Perciò, al netto del differente grado di misofobia diagnosticabile in un essere umano, tutta la questione risulta essere, in ultima analisi, una mera richiesta di esplicitazione del livello di intimità fisica che quella persona ritiene di aver raggiunto con te. Come se porgendole la birra, ti mettessi lì a fissarla e le dicessi: “E allora, di': ti faccio schifo sì o no?”. E il tuo ospite sarà costretto a risponderti. Senza mezzi termini né tempo per riflettere.
Certo, forse vorrà bere comunque, e allora... fiùùù, pericolo scansato.

Toh, una birra abbandonata in un parco. Qualcuno vuole favorire?
Ma forse, alla luce dei dettagli emersi a proposito di quella birra, vorrà desistere. E sarebbe perfettamente legittimato a farlo. Magari abbasserebbe lo sguardo, si ritirerebbe indietro e ti direbbe qualcosa come: “Oh, hai bevuto dalla bottiglia? Hm, ok...”. Il problema sarebbe che questo “Hm, ok...” se ne starebbe lì appeso nell'aria per qualche secondo, precedendo un silenzio pesante. Perché tanto tu che tua cognata sapreste che in quei puntini sospensivi, in quel silenzio denso di non-detti, vigerebbe un implicito: “A pensarci bene, hai ragione: bere dalla tua bottiglia mi fa un po' schifo”. Che, per come la vedo io, credetemi, va bene. Il grande problema non è che il suo rifiuto di bere possa arrecare uno smacco insopportabile al tuo orgoglio di persona sana e pulita.
Il vero grande problema è quel silenzio pesante, quello sguardo abbassato e quel tirarsi indietro. La voce che le trema, il sorriso nervoso e l'imbarazzo marchiato sul suo volto. Non perché tu sia dotato di una sensibilità superiore. Ma perché sai che in una conversazione cordiale e onesta, l'imbarazzo dell'altro diverrebbe il tuo imbarazzo.
Sarebbe stato meglio se la pipì in quella bottiglia, tu ce l'avessi fatta per davvero.

PROBLEMA – parte 2

A conti fatti, ti ritrovi in un vero e proprio inferno dell'anfitrione.
Un tuo ospite ti ha chiesto la birra.
La tua coscienza ti impedisce di versare la birra al tuo ospite senza fargli presente di aver bevuto dalla bottiglia.
Un'arzigogolata riflessione ti consiglia di evitare di dire la verità al tuo ospite per evitare di trasformare la cena a casa tua in un pasticcio di domande imbarazzanti e risposte imbarazzate separate soltanto da silenzi che altro non sarebbero che la quintessenza dell'Imbarazzo.
Stando così le cose, il problema si è evoluto in: come fare a negare la birra a tua cognata senza passare per un maleducato?

"Madame Bovary... c'est moi"

Mi rendo conto che continuare a voler far passare tutto ciò come il frutto di mie inquietanti speculazioni parossistiche è a dir poco disonesto, oltreché inutile. Giù la maschera dunque, il barbaro sono io. Lo zotico che ha bevuto la birra dalla bottiglia senza ritegno. Un lunedì sera. Con mia cognata a cena qui. Una mia cognata che vorrei restasse anonima, e che perciò mi limiterò a definire “la fidanzata di uno dei miei fratelli più piccoli”.

Tutto quanto scritto finora non è che il distillato metafisico della goccia di sudore freddo scivolatami lungo la schiena alle parole: “Che bello, la birra! Ne voglio un po' anch'io”.
Ciò che segue, invece, è la reazione delle mie sinapsi al casino in cui mi ero cacciato.

Vani tentativi di soluzione a buon mercato

Ebbene, ho passato in rassegna diverse possibili soluzioni: ho pensato di dissimulare egoismo (“La birra è mia e me la scolo tutta io”), avidità (“Certo, potrei anche dartene un po', se mi dai un contributo per i soldi che ho speso”), sordità improvvisa (glugluglu... “Dicevi, della birra?”), rabbia da alcolista furioso (“Il primo che tocca la mia birra, gli stacco le mani a morsi”). Ma tutte venivano meno al presupposto fondamentale di voler essere un buon anfitrione.

L'ideona

In cerca dell'ispirazione per questo post.
Il meglio che le mie sinapsi sono riuscite a produrre è stato: “Non posso dartene, ho bevuto dalla bottiglia. Se vuoi, puoi anche berla. Ma io non berrei mai da una bottiglia da cui hai bevuto tu”. Sulle prime non sembrerebbe, ma questa risposta è davvero l'unica cosa sensata che mi sono sentito di dire. In fondo riusciva a mettere in pace la mia coscienza di buon essere umano, che insisteva affinché mettessi mia cognata a parte del mio peccatuccio (“Non posso dartene, ho bevuto dalla bottiglia”), permettendo che fosse lei a decidere se voler bere o no, così da non scalfire la mia ambizione di essere un padrone di casa ospitale (“Se vuoi, puoi anche berla”),  rendendo comunque perfettamente legittimo un suo rifiuto di bere, in virtù di un evidente principio di reciprocità (“...io non berrei mai da una bottiglia da cui hai bevuto tu”).

Epilogo

Ciò che le mie sinapsi non avevano previsto, semmai, è che il mondo non si esauriva alla soluzione di tale dilemma. Sarebbe andato avanti.
E infatti, uscito dall'angolo in cui mi ero ficcato da solo, uscito da quella situazione da “fight or flight”, l'adrenalina ha preso a calare, molto rapidamente. E ben presto mi sono reso conto di essere riuscito in un piccolo miracolo di eloquenza. Con una manciata di frasi istintive, sono riuscito a trasformare quello che era un problema di mia cognata in un mio problema. Adesso ero io ad aver ammesso di essere un ipocondriaco fissato. Solo per evitare che fosse lei ad essere posta nella situazione di doverlo dire a me.

Così, quando la pressione è diventata insostenibile, e visto che non c'era pericolo di sembrare più imbecille di quanto non apparissi già, ho deciso di confessare. Ho perciò sottoposto l'intera questione a tutta la tavola, esponendo il terribile Dilemma che mi sono trovato a vivere in quei pochi ma oltremodo intensi istanti, punto per punto.
Morale della favola: mia cognata la birra non l'ha più voluta. Non tanto per reali motivazioni igienico-sanitarie, credo. Con tutta probabilità sono semplicemente riuscito a farle passare la voglia.
Almeno a giudicare dal fatto che quando ho finito di esporre il Dilemma, e le ho chiesto di esprimersi sulla questione, il suo parere si è ridotto a un semplice ma estremamente eloquente: “Tu over sì scem”.

Badate bene: non ha detto “un pessimo anfitrione”, o “uno sgradevole essere umano”. Ha detto che song scem. Direi che il Dilemma è stato brillantemente risolto.

sabato 14 febbraio 2015

Latrine e Latrinen-

LATRINEN|gerücht.
Spulciando il mio dizionario Sansoni in cerca di un qualcosa poi divenuto irrilevante, mi sono imbattuto in questo lemma che nessun burlone avrebbe potuto adocchiare senza restarne irrimediabilmente affascinato. Che quella meravigliosa lingua che è il tedesco avesse una vera passione per le parole composte, non mi era ignoto. Che ce ne fosse una che comprendesse “Latrinen-“, sì.
Ebbene, ho scoperto che la parola tedesca di cui sopra, significa qualcosa tipo “pettegolezzo maligno, chiacchiera maligna”. La cosa che davvero mi affascina non è l’infantile e scugnizzesca gioia di sapere che anche trovandomi a Berlino potrei ascoltare un suono strettamente imparentato al caro vecchio “latrina”, udito non di rado per le strade della mia città, in contesti che poco hanno a che fare con discussioni sull’edilizia degli antichi romani. In realtà, anche se mi guarderei bene dal chiederlo a uno studioso serio di Althochdeutsch, ciò che mi piace pensare è che all’origine di questa parola ci sia il concetto che “Latrinen-” non si riferisca tanto all’oggetto dell’azione, il chiacchierare con malignità, quanto piuttosto al soggetto. In altre parole, quando ci prestiamo a pettegolezzi e chiacchiere maligne, non stiamo utilizzando un modo di parlare talmente sudicio e nauseante, da ricordare quei luoghi deputati all’espletamento di bisogni fisiologici quali la minzione e la defecazione, altrimenti detti latrine. Secondo i tedeschi, e secondo questa mia interpretazione etimologicamente di scarsa plausibilità ma antropologicamente azzecatissima, se passiamo il nostro tempo a spettegolare con malignità, le “Latrinen”, probabilmente, siamo noi.

venerdì 25 gennaio 2013

Biblioteche a confronto

La situazione drammatica della BRAU

Le ore di apertura al pubblico della BRAU, la Biblioteca di Ricerca di Area Umanistica della Federico II, sono state drasticamente ridotte. Dal 7 gennaio infatti, altri due giorni della settimana sono stati falcidiati dalla mannaia del ridimensionamento. Oltre al venerdì, adesso anche al lunedì e al mercoledì la BRAU chiuderà alle 14, in anticipo di tre ore sul già malinconico orario di chiusura regolare.
La motivazione che campeggia sui fogli di avviso all'utenza è la carenza di personale.
Il che è un pugno nell'occhio, un insulto sardonico verso una popolazione, quella napoletana, che vede nella disoccupazione uno dei suoi mali paradigmatici. Ma lasciamo stare rivendicazioni da "'O posto ce sta, e nun ce 'o vonno dà". In questi tempi di crisi economica e di scure posta alla radice della cultura, come di altro, in nomini austerity, capisco non ci sia posto, appunto, per nuove assunzioni.
Ciò che faccio fatica a capire è il perché della differenza paradossale tra le difficoltà della BRAU a garantire il servizio minimo dell'apertura e la gozzovigliante abbondanza della più grande biblioteca di Napoli, la Nazionale.
Difatti, mentre la BRAU opera a mezzo servizio per mancanza di personale, la BNN trabocca di lavoratori. Già appena giunti nell'ingresso al pubblico della sede centrale, si è accolti anche da 4 o 5 dipendenti, lì dove in 2 sarebbero grasso che cola. Sembra quasi non ci sia spazio per tutti; potete scommetterci che al mattino litigano per le sedie.
Ma sono tutti gli uffici ad avere semplicemente troppi dipendenti. Basta farsi un giretto al primo piano per rendersi conto che alla BNN c'è un esubero di personale spaventoso. Riesce difficile vedere un ufficio con meno di 4 persone. Che, se ci fosse davvero una mole di lavoro adeguata, sarebbe ovviamente legittimo averne anche più. Ma il sospetto è che molti dei lavoratori della BNN siano stati assunti per tenere compagnia ai colleghi che già vi lavoravano. Io non ce l'ho con loro, coi dipendenti della BNN; sono certo che fanno il loro meglio per far funzionare la biblioteca al massimo delle sue possibilità. Il punto è che una volta fatto il loro meglio, non rimane più nulla da fare; comunque non per tutti loro. E quindi li vedi lì, a chiacchierare, a litigare, seduti, annoiati, costretti a stare lì in quell'ufficetto troppo piccolo, in 5 o 6, a stretto contatto, che se lo viene a sapere Pannella uno sciopero della fame ci sta tutto; e sembrano i protagonisti di un nuovo reality. Metteteci qualche telecamera e vi posso assicurare che l'idea non è male.
L'ufficio fotocopie avrà davvero bisogno di 5 persone? E l'ufficio informazioni quale misteriosa funzione suppletiva svolge per necessitare dello stesso numero di impiegati? E perché mai, nella guardiola del portico d'ingresso di Palazzo Reale, dove gli unici impicci alla lettura del giornale sono controllare che non entri nessun uomo col bazooka e armeggiare con la sbarra elettronica per permettere il transito dei veicoli, perché mai dico, c'è bisogno di due uomini? Uno alza la sbarra e l'altro la abbassa?
Io faccio un appello. Che può apparire una provocazione soltanto perché ci siamo ormai abituati all'idea che i cittadini siano stati inventati per la burocrazia e non la burocrazia per i cittadini.
Non sarebbe possibile una qualche forma di collaborazione tra i due diversi ministeri da cui le due biblioteche dipendono, per il bene di Napoli? Dal momento che - e mi mantengo basso - almeno un quarto dei dipendenti della BNN hanno l'unica funzione di rappresentare un emblema del feroce assistenzialismo adottato a Napoli nelle sfere pubbliche a qualsiasi livello, non si potrebbero mandare un paio di dipendenti in soccorso alla BRAU? Tanto i dipendenti della BNN bisogna pagarli lo stesso, magari li "sfruttiamo" per una giusta causa.
Mi rendo conto che sarebbe un problema, perché sono dipendenti di enti pubblici diversi e magari bisognerebbe cambiargli il contratto, e forse non vorrebbero cambiare sede di lavoro e complicazioni di ogni tipo. Ma insomma, non si potrebbe adottare una formula calcistica, una sorta di prestito con diritto di riscatto? Poi magari quando le cose alla BRAU (o in Italia) si aggiusteranno, la Federico II potrà assumere qualcun altro, la Biblioteca resterà aperta più a lungo, con orari da vera biblioteca, e i dipendenti in prestito dalla BNN potranno tornarsene a litigare al mattino per la propria sedia.
La BRAU è una risorsa preziosa e un fiore all'occhiello non solo della Federico II, ma di tutta Napoli. Vanta un patrimonio librario enorme. È una biblioteca a scaffale aperto, di quelle che a Napoli si vedono solo nei film, perché in altre biblioteche per ottenere la consultazione di un testo bisogna riempire moduli su moduli, che invece di leggere un libro sembra si sia richiesta l'adozione di un bambino.
Spero vivamente che non si lasci spegnere questa fiammella di cultura, accesa nel cuore di Napoli.
E, volutamente alla fine, in un accesso di auto-consapevolezza del valore assegnatoci dalla società, segnalo che sarebbe anche una forma di rispetto verso noi studenti. Ogni anno ci vediamo aumentate le tasse; in cambio diminuiscono i servizi. Un altro paradosso. Non sembra anche a voi che a volte il mondo vada al contrario?

Potrebbe interessarti:http://www.napolitoday.it/economia/situazione-drammatica-brau.html
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Ho inviato l'intervento a qualche sito e giornale.
L'hanno pubblicato:
- il Corriere dell'Università
NapoliToday
- l'edizione di Napoli di Repubblica

lunedì 7 gennaio 2013

Dell'abolizione del libretto universitario



La notizia è questa: alla Federico II, a partire dall’anno accademico in corso, le nuove matricole non riceveranno il libretto universitario. Si è deciso di abolirlo per accogliere due diverse istanze, pare: quella della dematerializzazione cui tende la pubblica amministrazione da una parte; e dall’altra, il desiderio di alcuni studenti di ricevere un giudizio più equanime ai propri esami.
Lasciamo perdere l’aspetto burocratico e prendiamo in considerazione l’altra faccia della medaglia. Da questo punto di vista, la decisione è, in astratto, sicuramente una bella cosa, e si basa su un principio fondamentalmente giusto: i professori devono essere oggettivi nel valutare la preparazione di uno studente, senza condizionamenti di sorta.
La conquista (così l’ho sentita chiamare: la Conquista), è stata accolta quasi come una svolta epocale. Uno spartiacque in grado di scindere la storia dell’università in un prima illiberale, quasi un medioevo accademico, e un dopo da “età dei lumi”, finalmente libero di proiettarsi verso una giustizia perfetta. D’ora in avanti nell’università napoletana regnerà la rettitudine. Oltre alla libertà, l’uguaglianza e la fraternità.

La cosa, in realtà, è un po’ più complessa. Non sono convinto che fosse davvero lui, il Libretto, il nemico da combattere. O comunque, non per primo.
Un professore, per ragioni indipendenti da lui, è chiamato a valutare la preparazione di svariate decine di studenti, magari in un solo giorno. E ognuno di essi deve mostrare, in un quarto d’ora, il grado di preparazione raggiunto su un programma che può prevedere le 800 pagine di un manuale, un saggio monografico e tre testi classici della materia trattata.
E c’è qualcuno che ha il coraggio di esultare per la Conquista!
È chiaro che ogni condizionamento può essere sempre sbagliato. Ma viste le condizioni in cui i docenti devono valutare i candidati, più che un meschino turbamento, il libretto era da ritenersi un ulteriore elemento a cui il professore poteva fare riferimento. Cavolo, è chiaro: non l’unico. Ma se un professore arrivava a mettere un 30 ad un esame che valeva 22, solo in virtù di un libretto sfavillante, il problema mi parrebbe più profondo. Un simile sfoggio di incompetenza non si risolverà certo ghigliottinando il demonizzato libretto.

Questa decisione è stata semplicemente il frutto dello spirito del tempo. In nome di un vago concetto di democrazia ed egualitarismo, si è sacrificato sull’altare dell’ideologia quel pragmatismo necessario per condursi in situazioni estreme. Invece di cercare soluzioni a qualcosa che non va,  – le valutazioni imprecise dei docenti – si è pensato di estirpare il male dal sistema con un metodo più appariscente che efficace.
Come accorciare i tempi per la prescrizione perché la giustizia va a rilento.
Come vietare alle auto di circolare e avere mezzi di trasporto penosi.
Nessuno vuole che un processo duri 10 anni o che l’inquinamento ci ammazzi tutti. Ma i problemi vanno risolti, non aggirati. Il libretto non è un mezzo divino inviato dal cielo per garantire la meritocrazia. Eliminare il libretto era doveroso. Ma a coronamento di una riforma veramente utile e non come azione ideologica che ha tutta l’aria della polvere gettata sotto il tappeto.

D’altra parte, pensare che i professori siano completamente asettici, immuni da qualsiasi stimolo che possa turbare la loro capacità di giudizio è pura utopia. Un qualche tipo di condizionamento l’avranno sempre. E io preferisco mille volte che il professore venga condizionato dal mio libretto piuttosto che da altro. Se non sarà il libretto a dare qualche informazione suppletiva al professore, significa puntare tutto sull’abbigliamento, sul servilismo, sull’andare a ricevimento ogni settimana “per farsi vedere”, sul fare interventi banali durante le lezioni, sull’avere un bel paio di… occhi.
Il libretto poteva sì esercitare un tipo di condizionamento; ma di tutti i tipi possibili, il suo sembrava quello più equo, più fondato su una motivazione logica. Era una forma di pressione che, quando funzionava, lo studente s’era conquistato sul campo. Nessuno gliel’aveva regalato. Non gli era stato assegnato un potere di condizionamento iniziale, magari in base al reddito. Non c’erano baroni nascosti, dietro questa prassi.

La leggenda che narra di ragazzi sfavoriti dall’avere un libretto mediocre, che non riescono mai, per tale motivo, a prendere voti alti, è una cavolata priva di fondamento. Uno studente che ha 24 di media, ha quella media per il semplice motivo che quella meritava. Forse 24.5, ma insomma. E non lo dico da fortunato che ha preso 30 e lode i primi due esami. Dovessi ripartire altre dieci volte da zero, vorrei sempre partire con la possibilità di esibire il libretto e la speranza che il professore lo apra.

Ma ora giustizia è fatta. Il libretto non c’è più. Adesso tutti i ragazzi che prendevano 22 o 23 ai loro esami possono ambire a prendere, una volta nella vita, un bel 27; toh, un 28.
Il libretto, per un professore intelligente, non è mai stato il pontefice che parla ex cathedra. Non di rado ho sentito professori invitare studenti particolarmente brillanti a ripresentarsi la prossima volta, per non rovinargli la media. Per contro, conosco persone che hanno preso 30 e lode a qualche esame, nonostante medie poco brillanti. Per poi tornare, dopo quell’exploit, a ricevere i loro affezionati 24 e 25.

In un sistema che fa acqua da tutte le parti, prendersela con uno dei pochi baluardi in difesa degli studenti in gamba mi sembra una vigliaccata. Tanto più che è stata voluta da studenti. Un suicidio, parrebbe. Ma i benefattori delle nuove leve si sono ben guardati dall’applicare i frutti della Conquista anche a sé stessi. No, le nuove disposizioni hanno effetto solo per i nuovi iscritti. Questo perché hanno pensato che potesse essere ingiusto cambiare, per una persona già avviata in un certo modo. Già, lasciamola ai posteri questa ricchezza inestimabile che abbiamo faticosamente agguantato.

Del resto c’è una domanda che mi assilla: come può dormire tranquillo chi ha promosso questo cambiamento? Se ha ritenuto che un uomo o una donna, laureati e abilitati all’insegnamento, e abbastanza in gamba da entrare in un’università prestigiosa come la Federico II, non fossero abbastanza maturi da permettere al libretto di dare non più di una mera indicazione. Ora, questi stessi uomo e donna, dovrebbero giudicare gli studenti affidandosi ai 15 minuti loro concessi. Non è un controsenso?
Le persone che hanno manifestato così tanta sfiducia verso gli insegnanti, come possono pensare con fiducia che questi sappiano cogliere, durante la valutazione di un esame, la differenza tra un 27 e un 28? Se un professore è indeciso se dare o meno la lode allo studente che ha di fronte, che male c’è se per trarsi d’impaccio ricorre al libretto, che magari gli mostra che già in due esami passati quello studente ha preso 30 e lode, proprio con lui?
Non era meglio correre il rischio che, ove mai ci potesse essere condizionamento, questo andasse a premiare i più bravi e “sfavorire”, o non favorire, i mediocri?
Mi rendo conto che il discorso puzzi di aristocratico. Ma io di aristocratico non ho nulla. A me basterebbe che venisse visto come un mero desiderio – in mancanza dell’originale – di simil-meritocrazia.

martedì 18 dicembre 2012

"Ma 9x9... farà 81?"


C’è una scena in “Non ci resta che piangere” in cui Benigni e Troisi, nel loro peregrinare attraverso il Medioevo, si trovano di fronte Leonardo da Vinci. Per entrare in contatto con un personaggio di questo spessore, i due stabiliscono che non c’è altro modo: bisogno incuriosirlo, con un “ragionare di scienza”.
Così si mettono a simulare una conversazione peripatetica e giunti nel raggio uditivo di Leonardo, Troisi ritiene di aver individuato il tasto giusto da toccare: matematica. “Ma 9x9… farà 81?”. Eh già, come se fosse stato possibile spacciarsi per luminari scientifici dinanzi al Genio rinascimentale facendo sfoggio della conoscenza delle tabelline.
Ma la carica comica di questa battuta sta proprio nella pretesa di poter trasformare un elemento oggettivo quale è una moltiplicazione, in un oggetto di dibattito. Sulla matematica c’è poco da obiettare. La matematica, ci hanno insegnato, non è un’opinione.
Ma quanto non era altro che una semplice e riuscita trovata umoristica persino nella Frittole del 1400 (seppur “quasi mille e cinque”) diventa una cosa serissima nella Napoli del terzo millennio. Alla Federico II sono infatti riusciti a capovolgere il più abusato dei luoghi comuni sulla matematica. Per la segreteria della Facoltà di Lettere e Filosofia essa è eccome, un’opinione; al punto da rendere una semplice operazione matematica, oggetto di discussione di un consiglio di corso di laurea.



Esperienza personale. I fatti sono questi.
All’inizio di quest’anno accademico ho deciso di riprendere gli studi, dopo un’interruzione di alcuni anni.
Iscrivendomi, ho effettuato il passaggio dal Nuovo Ordinamento (NO) al Nuovissimo Ordinamento (NNO) ed ho richiesto il riconoscimento degli esami sostenuti nella mia carriera pregressa. Nel farlo, ero consapevole delle inevitabili incongruenze che sarebbero nate nel trasferimento da un ordinamento all’altro. Esami che nel NO valevano 4 crediti, nel nuovo valgono 9, ad esempio; o magari due o più esami del nuovo, sono stati accorpati in un unico esame nel NNO. Di conseguenza bisogna fare delle integrazioni agli esami già sostenuti. I programmi dovrò concordarli col docente di ruolo del relativo insegnamento.

Tutto questo a me lo ha detto il cordiale impiegato della segreteria in via Giulio Cesare Cortese. Mi ci sono recato, dopo un mese dall’iscrizione, per prendere visione della delibera del CdL. È il consiglio che stabilisce e ufficializza quali esami riconoscere e con quali modalità.
L’impiegato ha continuato a darmi spiegazioni e a dirimere ogni mia perplessità per un altro paio di minuti.
Poi…
Quando stavo già per andare via, ho fatto una domanda; una di quelle che fai per eccesso di zelo, per pedanteria, per ansia. Come verrà calcolato il voto finale che comprenda la valutazione dell’esame più l’integrazione? Ovviamente, visto che il voto già acquisito l’ho preso su un programma di 8 crediti e l’integrazione vale 4 crediti, l’incidenza dei due voti è diversa. No?
L’impiegato mi ha freddato.
Mi ha spiegato che le cose non stanno esattamente così. In realtà loro non calcolano la media ponderata, bensì quella aritmetica, indipendentemente dal peso dell’integrazione. Per inciso, ha tenuto a precisare, anche se ci fosse da integrare un solo credito, zacchete, media aritmetica.
Per coloro ai quali quest’affermazione non fa gelare il sangue nelle vene, voglio raccontare questa storiella.

Quand’ero piccolo ho amato Andy Capp, il protagonista della serie di strisce a fumetti creato da Reginald Smythe (in Italia, forse, la striscia è più famosa come “Le avventure di Carlo e Alice”). In una pagina che mi ha fatto sorridere per anni, c’è Flo, la moglie grassoccia di Andy, che sale su una bilancia, e intima al marito, evidentemente più magro, di balzarci su anche lui.
La bilancia fa il suo lavoro e i due se ne vanno via, Flo visibilmente rinfrancata. “160 Kg, diviso due… fanno 80”. Andy la guarda perplesso e fa per obiettare: “Ma in questo modo…”.
“Non una parola” gli ringhia contro Flo.
Divertente. Quando una cosa del genere non accade nella realtà.
L’impiegato, che a questo punto ho cominciato a detestare visceralmente, mi ha confessato quanto sarebbe complicato per loro e per i sistemi informatici fare una media ponderata per ogni singola integrazione.

Ma voi non siete l’assemblea di condominio di un parco di periferia. Voi siete la segreteria della Federico I, perdiana, la più antica università pubblica del sistema solare. Più antica persino di Leonardo.

Il maledetto impiegato ha rincarato, invitandomi a tener conto che, be’ sì, anche per i professori non sarebbe stato semplice districarsi in una siffatta complicazione.
A me questo è parso un banale tentativo di ironizzare sullo stereotipo dell’uomo di lettere incapace di cavarsela anche coi numeri e le operazioni più elementari.
Poi talvolta accade che noi che ci troviamo nell’ambito delle materie umanistiche, inorridiamo, ci offendiamo e scandalizziamo perché ci viene rimproverata l’inutilità e l’insostenibilità economica, politica e sociale, del nostro ambito di studi. E hai voglia a cercare di ribellarci e rispondere a questo luogo comune e provare a mettere k.o. il nostro interlocutore con argute risposte aforistiche. Se le segreterie delle nostre facoltà non sono nemmeno in grado di fare un calcolo tanto banale, secondo me la questione è chiusa, senza possibilità di replica. Meritiamo di diventare oggetto delle barzellette degli studenti delle facoltà scientifiche, un po’ come i carabinieri.

L’impiegato continua a parlare ma ormai mi sono arreso. Spiegazzo la cartaccia della delibera e la infilo in cartella. Agonizzante, ma non ancora domo, protesto infantilmente ancora un po’: “Forse è perché ho fatto un istituto tecnico, ma le assicuro che non era così complicato calcolare il diverso peso dei due voti”.
Quasi avesse voluto darmi l’estrema prova dell’ottusità del sistema, l’impiegato mi ha inferto il colpo di grazia: “Guardi, lei in teoria ha ragione. Ma è il consiglio che decide su queste cose. E il consiglio ha stabilito che era più… ecco, diciamo che era più conveniente per noi, fare in questo modo”.
Che è un po’ come se io là dentro invece che per discutere dei crediti formativi, ci fossi andato per sapere a quanto ammontavano le tasse da pagare.
“Be’ guardi. Sono 100 € la tassa regionale, e 150 € il contributo all’università, per un totale di 350 €”.
“No mi scusi” avrei obiettato, “ma 100 e 150 fanno 250”.
“Sì, in teoria lei ha ragione, ma vede, il consiglio del corso di laurea si è riunito e ha stabilito che per noi è più conveniente che facciano 350”.

Io, è vero, ho fatto un istituto tecnico. Tuttavia non credo mi verrà mai assegnata la medaglia Fields solo per essere in grado di calcolare una media ponderata. Ma talvolta la matematica può trasformarsi in un’opinione. In un ragionare di scienza.
Forse Troisi ha sbagliato periodo storico in cui ambientare la sua battuta. Nel 1400 era troppo avanti coi tempi. Avrebbe dovuto farla nella Federico II del 2012. Ma 9x9 farà 81? Solo che in segreteria non ci avrebbero trovato nulla da ridere. E al massimo avrebbero posto la questione all’ordine del giorno nel prossimo consiglio di laurea.

giovedì 1 marzo 2012

Io e la pasta e fagioli


Oggi, come accade di norma una volta a settimana, ogni settimana da quasi 15 anni, la nonna ha cucinato pasta e fagioli. Ora, io non so in che rapporti siate voi con la pasta e fagioli, ma il mio è piuttosto conflittuale. Un conflitto cruento che ha alternato, nella sua evoluzione, periodi di relativa calma a picchi di criticità inquietanti.
Non ho nulla da ridire su mia nonna. È una brava donna e una buona cuoca. I problemi per la verità erano cominciati già con mia mamma. Quand’ero piccolo non ammettevo discussioni: pasta e fagioli non la volevo. Inutili tutte le manfrine che mi rifilavano per convincermi della sua supposta capacità di farmi crescere i muscoli. Sapevo benissimo che quelli che facevano crescere i muscoli erano gli spinaci, chi volevano fregare.
Una volta, non so se per variare o per infierire, vollero farmi assaggiare la zuppa di fagioli. Non ricordo quale subdolo mezzo dovettero usare per convincermi a dare almeno qualche boccone. Ancora oggi non escludo nulla, dalla violenza alla meschina promessa della “bella cosa”, fino all’ipnosi. Ma non mi capacito di come abbia potuto avere il coraggio anche solo di mettere il naso sotto quella brodaglia arancione in cui affogavano, poverine, tre o quattro fette di pane circondate da mollicci fagioli.
Incuranti delle mie manifeste difficoltà, la pasta e fagioli non è mai mancata dalla dieta settimanale di casa mia. Spesso, chiedevo che mi venisse concessa un’alternativa; e non di rado, questo devo riconoscerlo, mi veniva accordata. Ma non meno di rado capitava che, stoicamente, mi decidevo a mangiarla la pasta e fagioli. Non era un accesso di conversione. Si trattava piuttosto del desiderio di non essere un impaccio alla già complicata vita da cuoca di chi mi cucinava.
Nel corso del tempo, la cosa cominciò ad avere ripercussioni culturali. Con malcelata vergogna, attraverso riflessioni mirate, fui costretto a rendermi conto che era una combinazione micidiale a risultarmi insopportabile: i fagioli, assieme alla pasta mista. O per dir meglio: ‘e fasule ca pasta ammiscat. Insomma, uno dei pilastri della tradizione culinaria napoletana. Un’onta terrificante per la mia anima orgogliosa di giovane partenopeo.
Non so se subconsciamente possa aver influito questo, ma crescendo ho iniziato ad avere un approccio un po’ più maturo. Già allora, ogni tanto mi coglievano queste fisse salutiste. Mangiare sano. Figurarsi. Con tutte le merendine, e le patatine, e i kebab, e le pizze pittoresche. Ma a maggior ragione, quindi, i legumi ci vogliono. Fanno bene. Ecco, credo sia su questo “fanno bene” che gran parte di noi bambini occidentali ci ritroviamo per la prima volta a filosofeggiare, constatando che tutte le cose di cattivo sapore, chissà perché, ci fanno bene; e per contro, quelle che mangeremmo dalla mattina alla sera, quasi sempre, fanno male. (Il secondo momento filosofico invece, di norma si ha a scuola, analizzando dottamente col compagno di banco come il tempo sembri non voler passare mai se stai facendo qualcosa di noioso, come assistere a una spiegazione del professore, e viceversa.)
Ad ogni modo, questo “fanno bene” è stato tutto ciò che mi ha spinto ad accettare di mangiarli. Senza che mi si chiedesse, al mattino, se per caso quel giorno me la sentivo di affrontare. Senza che la cosa mi rovinasse la giornata. Senza turarmi il naso ad ogni boccone. Senza aiutare la deglutizione di ogni singolo bolo con un sorso d’acqua. Senza sentirmi un eroe, alla fine. Senza lasciare intere cucchiaiate nel piatto, “che i bambini in Africa, se avessero a disposizione quel ben di Dio, ci si butterebbero dentro a capofitto” (e il conseguente senso di colpa, e profondo desiderio di saltare il pasto, una volta a settimana, il giorno dei fagioli, e lasciarlo a qualche bambino africano).
Ed ora eccola lì, sul tavolo, la mia pasta e fagioli. Per la verità, continua a farmi un po’ schifo. Per poterla mangiare, nel tempo sono ricorso a vari escamotage. L’ultimo, in senso cronologico, è stato il peperoncino. Prendo un pezzo intero di peperoncino, lo apro, spargo i semi nella pasta, ci ficco dentro i pezzi divisi, e rimescolo. Un bicchiere sempre pieno d’acqua, per motivi di sicurezza. Il peperoncino è terribile. La settimana scorsa, mi è capitato di stropicciarmi gli occhi, istintivamente, senza lavare le mani. Avete presente quando le mamme dicevano che se avessimo continuato a fare i monelli ci avrebbero messo il peperoncino sulla lingua. Per quanto mi abbia lasciato vivere con questo terrore per tutta l’infanzia, la mia non l’ha mai realmente fatto. E menomale. Penso che una buona dose di peperoncino sulla lingua possa essere classificato tra i metodi di tortura più brutali, in assoluto. Il peperoncino ha preso a bruciarmi l’occhio sinistro, come mai nessuno shampoo aveva saputo fare nell’ultimo ventennio. Allucinante.
Per questa esperienza piccante, me la sono preso con loro, i fagioli, ovviamente. Non fosse stato per il loro gusto avvilente le mie papille gustative, non sarei stato costretto a maneggiare quel pezzetto curt e mal ncavat di peperoncino; che, a proposito, dicono faccia molto bene.
Ma ora sono cresciuto. Io e i fagioli stiamo riuscendo a convivere. E in fondo, a quei maledetti, ho imparato a voler bene. Non li rigetto. Non chiedo più la via di fuga. E se anche mi viene offerta – per pietà o che so io - rifiuto, fieramente. Speranzoso, magari, che i fagioli possano redimermi da tutti i miei peccati alimentari. E, pensando ai bambini in Africa, non solo da quelli.